Qualcuno ora sale sul carrozzone del tipo: “Io l’ho sempre detto” ma chi segue attentamente le vicende della lega sa perfettamente che i dieci anni carriera NBA di Zach Randolph sono stati costellati di critiche e scetticismo.
Scelto da Portland nel 2001 dopo esser stato MVP del McDonalds All-American, il prodotto di Michigan State passa le prime due stagioni in sordina tra piccoli infortuni e scarso minutaggio, per esplodere definitivamente nel 2003 portando a casa una stagione da 20.1 ppg e 10.5 rpg ed il premio di Most Improved Player.
I numeri di questo dominatore dai lineamenti tondeggianti fanno letteralmente girare la testa, con i Blazers in sei stagioni 15,3 ppg e 7,3 rpg, contando la stagione da Rookie in cui ha giocato solo 41 gare. Poi la notte del draft 2007 lo scambio con i Knicks e l’entusiasmo degli occhi di uno Spike Lee saltellante che esultava davanti al maxischermo dell’MSG, un entusiasmo durato troppo poco nella Grande Mela che quell’anno si ritrovava nel reparto lunghi con Curry, Z-Bo e Lee!!!!
Tra fischi e frasi del tipo: “ Mah non so c’è qualcosa che non va in lui!” fattura 19 ppg e 11,4 rpg in una stagione e un quarto ai Knicks, per poi essere sacrificato per il super progetto di Donnie Walsh & co.
Ai Clippers, dove colleziona gli stessi numeri del suo ben più blasonato successore di nome Griffin e finalmente l’approdo ai Grizzlies dove da due anni gira a 20 ed 11 di media.
Per la cronaca i numeri del ragazzo sono quelli dei vari Duncan, Boozer, Howard e di tutti gli altri lunghi di “élite” della lega, ma mai nessuno in tutti questi anni ne ha capito il valore effettivo, ok un All Star Game, un contentino che arriva a seguito di almeno cinque stagioni da dominatore in cui quel posto lo avrebbe meritato senza alcun dubbio, per non parlare della regular season appena conclusa in cui si è preferito mandarci una faccia pulita come quella di Kevin Love.
Il problema sta nell’etichetta che ti incollano il giorno stesso del Draft, se Stern e soci dicono che sei un piantagrane in questa lega farai dieci volte più fatica a guadagnare stima da tutti gli addetti ai lavori, stampa compresa. La storia insegna, qualcuno ricorda il numero 44 dei Nets edizione inizio anni ‘90 si chiamava Derrick Coleman e per circa dieci stagioni è stata una delle più devastanti ali forti della lega (20 e 10 come se nulla fosse) ma la sua etichetta ha pesato ben più dei suoi numeri ed oggi nessuno ricorda la sue gesta tranne quei maniaci che vanno in brodo di giuggiole per quei giocatori cosiddetti underrated o bad boys.
Tornando ai nostri giorni l’ultimo quarto di gara 6 contro gli Spurs è stato il palcoscenico di una di quelle dimostrazioni di onnipotenza cestistica degna di Bryant, James, Wade e pochi altri in questo gioco. Con tutta la difesa di San Antonio che collassava sull’ex stella di Michigan State senza alcun successo, entrano in scena un semigancio, un contropiede in velocità, fadeaway dal gomito, tiri dall’angolo, il tutto con McDyess incollato al corpo che lo picchiava nel vero e proprio senso della parola. Piccola grande perla di una carriera che oggi è all’apice, nome che oggi è sulla bocca di tutti, talento e numeri che fanno impazzire il mondo e quella Memphis svegliata da un torpore che ne ha contraddistinto la storia recente sia nella lega che nella società americana.
Qualcuno però caro Z-Bo da anni porta avanti il tuo vessillo e un pò storce la bocca quando vede tutti questi analisti della lega fare chapeau davanti a prestazioni di questo calibro e ad un giocatore che fino al giorno prima avevano ignorato, ma così è la vita, oggi godiamocela e scecheriamo il “Pelvis” perchè da oggi c'è un nuovo “Re” in città.
By Andrea Lazzara
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