L’NBA per antonomasia è la Lega che raccoglie il maggior
talento in circolazione, riconoscibilissima poi da una caratterizzazione di
fisicità e atletismo che trascendono qualsivoglia campionato messo a confronto.
Una combinazione che rende sicuramente il gioco più spettacolare se non altro
unito a capacità tecniche che chi ce l’ha sa ricamarci sopra per dominare.
Ma in questa descrizione c’è da citare che nell’immaginario
comune, spesso e volentieri una corrispondenza biunivoca con la realtà, la NBA
è l’habitat naturale di un attaccante dove in primis c’è l’abilità del singolo anteposto
per la maggiore a quello che può dare alla squadra in termini di equilibrio.
Ovviamente non per tutti è così ma spesso e volentieri ad identificare il
campionato statunitense di basket è la giocata offensiva, che possa o meno
tramutarsi in schiacciata perentoria.
Ad oggi però non c’è da farsi sfuggire un particolare
rilevante che adombra un bel po’ i pregiudizi che nascono, giustamente, guardando
la Regular Season in generale piuttosto che anche gli interi turni di playoff.
Questo perché quest’anno a far da padrona è la difesa prima dell’attacco con
tutte e quattro le squadre che sono arrivate in fondo, che possono vantare ed
essere elogiate per saper mettere in mostra una difesa eccellente, costruita
sia sui movimenti che sulle capacità del singolo. Memphis ed Indiana devono al
loro modo di concentrarsi nella fase passiva di gioco, il cammino fatto sin
qui, grazie agli scivolamenti, ai rimbalzi (anche offensivi c’è da
sottolinearlo) e all’attenzione del singolo di non far vacillare i movimenti di
tutti.
Con San Antonio non serve nemmeno parlarne della difesa,
forgiata da un coach leggenda-vivente come Popovich ed un capitano come Duncan
che è come un albero secolare sempreverde. A Miami oltre i complimenti sparsi
di giornalisti e commentatori, al loro lavoro difensivo che li porta poi a
ripartenze pazzesche, ci sono anche i riconoscimenti “personali” con LeBron e
Wade che nel corso della stagione non hanno mancato di sottolineare come il
lavoro difensivo pagasse e aiutasse anche il compito in attacco (che peraltro
non ne ha bisogno ma sicuramente ne beneficia).
Questi playoff sono la rivincita della difesa, sono
l’emblema di come stoppare gli altri sia importante allo stesso modo di saper
segnare a propria volta. Non ci si ergerà mai a dire che la NBA sia la casa
della difesa, ben lungi da ciò, ma di sicuro la dimostrazione che si sappia
vincere anche dall’altra parte dell’oceano dimostrandosi più attenti alla fase
difensiva, ha trovato risposta tra aprile e maggio di quest’anno. Quattro
squadre che sanno attaccare, anche coi singoli (soprattutto quelli della
Florida) e quattro squadre che però sanno di non andare da nessuna parte senza
saper difendere come si deve.
E non a caso seduti su quelle panchine da finali di
Conference, ci sono alcuni dei coach oggettivamente ritenuti più validi…
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